Risvegliandosi privi di memoria su un’isola deserta, i sopravvissuti a un’imprecisata catastrofe sognano di costruire il mondo perfetto. Hanno patito grandi sofferenze, perciò reclamano il diritto a una vita sicura, priva di turbamenti. Tuttavia un’ombra sinistra si aggira nelle case dove sono rintanati. Rumori di battaglia scompaginano la loro tavola, luci chiassose imbrattano il loro letto. Persino in bagno non riescono a stare tranquilli. Sembra che un nuovo diluvio minacci i loro progetti di rinascita. Da una stanza all’altra i legami si sfilacciano, cedono, esplodono. Poi una breccia si apre. In lontananza una terra ignota è apparsa. Disposti finalmente ad accogliere gli altri, qualcuno busserà alla loro porta. E così forse un mondo ricomincerà.
Sull’isola si sparse la voce che le acque erano infestate dagli squali.
Nemmeno nelle loro case si sentivano al sicuro.
Il processo
Prodotto dal laboratorio teatrale della compagnia Margine Comunicante e da transverberA, lo spettacolo nasce dagli sviluppi del progetto “E se fossi costretto a rimanere? Processi creativi per la costruzione di legami sociali”, promosso dal Dipartimento di salute mentale della ASL di Caserta / UOSM 15 di Piedimonte Matese, e realizzato dall’APS Rena Rossa in collaborazione con la Fondazione Bonaventura e transverberA. A cavallo tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, due fiumi si sono mescolati, dando vita a un collettivo inedito. Presentato per la prima volta il 29-30 giugno 2025, presso il Teatro S. Domenico S. a Piedimonte Matese, lo spettacolo è l’esito di un percorso nel quale il teatro si è nutrito degli incontri e delle relazioni che la sfida creativa, strada facendo, ha generato. Tale processo ha permesso tra l’altro di rimettere in discussione la distinzione tra pratiche “professionali” e pratiche “amatoriali”, rispetto all’attività teatrale in particolare e a quella artistica in generale. Che ne è di tale distinzione statutaria, con la logica gerarchizzante che al tempo stesso implica e alimenta, quando un processo creativo, sebbene condotto da non professionisti, nasce dalla condivisione di una vertiginosa sfida tecnico-artistica? E quando tale condivisione, fatta di solidarietà e cooperazione, è generatrice di intense relazioni, senza di cui la sfida creativa non potrebbe essere raccolta, diventando così volano per l’invenzione di nuovi legami sociali e di dinamiche comunitarie inedite? Questo nesso tra la dimensione tecnico-artistica e quella sociale non è forse l’“essenziale” dei processi creativi, giacché tocca il cuore della nostra avventura umana, storica e terrestre (cosmica)? E viceversa, quanti processi creativi, sebbene dotati di tutti i crismi della professionalità, falliscono l’appuntamento con tale nucleo incandescente, finendo per essere fatalmente “aneddotici”?
Lo spettacolo
Lo spettacolo è un’opera corale, affidata a un gruppo di lavoranti che costruiscono la scena sotto gli occhi del pubblico, smontandola e rimontandola senza sosta. Dal gruppo sono ogni volta selezionati i protagonisti delle diverse scene, corrispondenti ad altrettante “stanze”, e che si concludono puntualmente con un tableau vivant, come se i personaggi si limitassero a eseguire un copione prestabilito. Pensato come una satira dei nostri tempi, lo spettacolo indaga il fenomeno, al tempo stesso oscuro e banale, della paranoia, considerata come una malattia “domestica”. Si tratta di un invito a riflettere su ciò che accade quando pretendiamo di essere “padroni a casa nostra”, con il risultato di percepire l’altro come una minaccia, e di trasformare gli altri in potenziali nemici. Lo spettacolo non si basa su un testo composto in precedenza. La scrittura si è, al contrario, sviluppata durante la realizzazione dello spettacolo, con l’attiva partecipazione del collettivo. In tale processo creativo, sono stati ripresi e rielaborati una serie di riferimenti letterari, storici e filosofici – G. Deleuze, F. Kafka, J. Kerouac, Ch. Beradt, Ovidio, B. Brecht, H. Arendt, G. Orwell – che hanno ispirato il gruppo di lavoro nel suo lavoro di ricerca.
Il diluvio e l’isola deserta
Secondo Gilles Deleuze, nel mito del diluvio universale l’arca si ferma sull’unico punto della Terra risparmiato dalle acque: un’isola deserta dove il mondo può ricominciare. Se esiste una catastrofe successiva all’origine, è perché dev’esserci una seconda nascita, più essenziale della prima, cioè dell’origine stessa. Dovremmo tuttavia aggiungere che, affinché vi sia una seconda nascita, bisogna correre il rischio di una seconda catastrofe. Può infatti succedere che un nuovo diluvio distrugga i legami sociali, proprio mentre si prova a reiventarli. Questa è la vera catastrofe, che sbarra l’orizzonte di qualsiasi rinascita. È la paranoia che s’insinua come la peste sulla nave dei naufraghi; che segue come un’ombra i popoli erranti nel deserto. È la mano che addita il nemico dietro ogni ombra; la voce che di soppiatto suggerisce che è meglio volere l’odio che il nulla. Perciò bisogna sempre fare i conti con gli squali che assediano l’isola deserta. La notte della paranoia va attraversata. Bisogna correre il rischio di un salto nel buio, dove tutto può finire ancor prima di ricominciare, ma senza del quale non possono sorgere nuovi legami. Gli altri non esistono da qualche parte separati da noi. L’altrove va inventato, e solo quando saremo disposti ad accoglierlo in un orizzonte comune, gli altri sbocceranno sulle nostre rive e forse un mondo ricomincerà.
Il dispositivo
Rompendo il consueto impianto frontale, la scena si presenta come un dispositivo organizzato tra due poli o fuochi speculari: il palco e il fondo della sala, dove è sistemato uno schermo per la videoproiezione. Il pubblico è posizionato in verticale, in modo da favorire la fruizione, sia di quello che avviene sul palco, sia delle immagini proiettate sullo schermo. Inoltre, alcune scene si sviluppano verticalmente, tra il palco e il fondo della sala. Gli spettatori sono perciò disposti in file, a loro volta speculari, separate da un corridoio che consente il passaggio degli attori, i quali sono liberi circolare anche tra le sedie e dietro di esse. In questo modo, si produce un ambiente immersivo e destabilizzante, che rende possibile continue “intrusioni” degli attori, favorendo le loro interazioni con il pubblico. Tale dispositivo polarizzato risponde anche a precise esigenze dello spettacolo, in particolare all’intenzione di creare una tensione, da un lato tra una prospettiva micro e una prospettiva macro, dall’altro tra una dimensione personale, intima, e una dimensione sociale e politica. La prospettiva micro è quella della vita quotidiana, espressa dalle scene ambientate nelle varie stanze, e che si svolgono sempre sul (o a partire dal) palco. La prospettiva macro è invece affidata a materiali video d’“archivio”: richiamando fenomeni come la guerra e la dittatura, le immagini spingono il pubblico a riflettere sul presente, ponendolo in connessione con i propri vissuti personali. In tal modo, gli spettatori sono costretti a un continuo cortocircuito tra l’infima banalità della vita quotidiana, e il contesto storico-politico nel quale siamo immersi. Ciò consente d’intrecciare feedback emotivi e spunti riflessivi, producendo un’esperienza pregnante e intensa. Inoltre, a cavallo tra micro e macro e tra personale e sociale, lo spettacolo evoca l’universo mediatico e la realtà dei social network: l’invito è a riflettere, non solo sul fatto che la nostra vita quotidiana è sempre più influenzata, assorbita dalla dimensione mediatica, ma anche sul fatto che tale dimensione è capace di plasmare la nostra soggettività e di strutturare la vita sociale.
le scene
In generale, ogni scena comincia con il montaggio di una “stanza”, dopo aver smontato la precedente, e finisce con un tableau vivant, realizzato in diretta dai lavoranti, sul “modello” di quelli fotografati in precedenza e proiettati sullo schermo. L’espediente dei tableaux vivants, funzionale alla chiusura delle scene, risponde in realtà a un’altra esigenza dello spettacolo: il rapporto tra la “copia”, realizzata nel tempo vissuto della rappresentazione teatrale, e il “modello” prestabilito, sta a indicare che i protagonisti dello spettacolo non fanno che interpretare un copione stabilito in partenza. La paranoia è un sistema implacabile, nella cui architettura le persone funzionano come semplici automi. Non a caso, nell’ultima scena, il tableau vivant non si compie: divergendo dal modello verso cui tendono come un destino, i lavoranti mettono definitivamente in perdita l’architettura della paranoia.
Protagonista è una famiglia raccolta intorno al suo desco. Abitudini e comportamenti quotidiani sono riprodotti e amplificati come se fossero osservati con una lente d’ingrandimento. A un certo punto, il desiderio di controllo del padre lo porta a uscire di casa per verificarne la sicurezza: spiando dalla finestra, comincia però a sospettare che la minaccia si annidi nella sua casa, cioè che il nemico sia la sua stessa famiglia. Alla paranoia dell’uomo, ormai militarizzato persino contro i suoi affetti più intimi, fa eco una sequenza di esplosioni atomiche, con le loro corone d’ovatta che si levano verso il cielo. Circondato dai lavoranti, l’uomo osserva la scena tra orrore e meraviglia, invitando il pubblico a una riflessione supplementare: com’è possibile essere sedotti da ciò che ci distrugge?
SALA DA PRANZO
Protagonista è una coppia. L’idillio della loro storia d’amore è infranto dalla scoperta di un corteo di voci sociali che, circondando il letto, insinuano nella coppia sospetto e inimicizia. Dopo una violenta lite, la donna rimane sola, e fa un sogno nel quale le molestie subite dal suo datore di lavoro producono in lei un inaspettato sentimento di gratificazione. All’orrore di tale ambivalenza nei confronti del potere, fa eco un montaggio video, nel quale le immagini d’archivio di bambini che ricevono doni dalle autorità fasciste e naziste, sono inframmezzate da folle entusiaste inneggianti al regime. Anche in questo caso, sorge una domanda: la dittatura, o più in generale le forme di dominazione, sono anche il frutto della “nostra” love story con il potere?
Sala da pranzo
Protagonista è un singolo individuo. Chiuso nell’estremo rifugio della propria intimità, è tradito dal suo più fedele alleato. A un certo punto, lo specchio comincia a riflettere un’immagine difettosa, fallimentare, che lo disgusta al punto da spingerlo a un odio profondo nei confronti di se stesso. Poi, seduto sul wc, lo specchio lo tradisce di nuovo, riflettendo questa volta il cliché con cui la società lo stigmatizza facendo di lui un “alieno”. Doppiamente torturato, da se stesso e dalla società, il protagonista finisce per incorporare la mostruosità come colpa. A questo punto, un manipolo di lavoranti scanzonati lo raggiunge, e si dispone attorno a lui, trasformato in una sorta di trofeo di caccia, per scattare una foto di gruppo, simile a quelle realizzate dai marines nella prigione di Abu Ghraib. Nel frattempo, sullo schermo, scorre una galleria di banali selfie del protagonista, distorti però dalla scoperta di non essere più padrone della propria immagine. Il cortocircuito tra la tortura ricevuta e quella autoinflitta, in un mondo che fa della presenza mediatica una nuova condizione esistenziale, imponendo il culto di sé e della propria immagine, offre al pubblico un ulteriore motivo di riflessione.
BAGNO
L’ultima scena non è propriamente domestica, tuttavia l’aula del tribunale diventa il luogo in cui la società, asserragliata nel suo bunker, trasforma la paranoia in Legge. Inoltre in questa scena, la più elaborata dello spettacolo, la dinamica propriamente teatrale è per così dire “conquistata”, giungendo a conclusione di una sequenza di “istantanee” della vita quotidiana, che non a caso si concludono ogni volta con un quadro vivente. Il tribunale è il teatro nel quale ha luogo quella “catastrofe logica” che, secondo Hannah Arendt, costituisce la soglia di accettazione, da parte di una società, di una forma di vita totalitaria. In questa catastrofe, tutto si rovescia, e tale rovesciamento risuona nell’aula del tribunale come il verbo della Legge. Tuttavia, quando il giudice sentenzia che la “paranoia è ragione”, una nuova soglia è toccata: spinto ai suoi estremi limiti, il potere rivela il suo volto grottesco. La maschera “ubuesca” del potere rappresenta infatti un punto critico: da un lato è la massima espressione del potere (il momento in cui, come dice Michel Foucault, il potere afferma che “può tutto su di noi”); dall’altro è anche il punto di rottura del potere, giacché la rivelazione “scandalosa” del suo carattere arbitrario ed eccesivo può diventare un’occasione per ribellarsi e contestarlo. Per questo i lavoranti, trasformati durante il processo in un gruppo di ultras che inveisce contro il presunto imputato, durante la lettura della sentenza cambiano atteggiamento: prima s’interrogano perplessi, poi cominciano a discutere con il pubblico, infine convincono il giudice a scendere dal suo piedistallo, per partecipare a un momento liberatorio di lotta e di festa. Il tableau vivant non si compie, la notte della paranoia è attraversata.
TRIBUNALE
Il design e la comunicazione
In Casa Dolce Casa, il design non è soltanto funzione o decorazione: è pratica critica, linguaggio scenico, strumento relazionale. La scenografia, interamente composta da strutture modulari di legno autocostruite, nasce da un gesto collettivo e materiale: componibili danno forma a uno spazio domestico continuamente ridefinito. Ogni elemento è pensato per trasformarsi, per collassare e rinascere sotto nuove sembianze a ogni cambio di scena, come in un sogno abitato da ricordi disordinati. Il design scenico rifugge ogni coerenza stilistica a favore di una logica della metamorfosi: il palco non rappresenta, ma espone la sua continua reinvenzione. Lo spazio stesso della rappresentazione è progettato come dispositivo disorientante: rompendo la frontalità classica, gli spettatori sono disposti lungo un corridoio centrale che separa due file speculari. Non assistono allo spettacolo da fuori, ma lo abitano. Gli attori si muovono tra le sedie, intorno ai corpi, alle spalle di chi guarda; le scene accadono davanti, dietro, di lato. Le immagini video, proiettate sullo schermo in fondo alla sala, aggiungono un terzo piano percettivo, generando una tensione costante tra l’intimo e il collettivo, tra la scena vissuta e quella mediatizzata. Lo spettatore è così chiamato a uno sguardo composito e instabile, che deve continuamente ricombinarsi per dare senso a ciò che vede. È coinvolto non come osservatore ma come presenza, corpo in ascolto, parte integrante del paesaggio drammatico. Anche la comunicazione dello spettacolo è concepita secondo questa stessa logica progettuale. Il profilo Instagram di Casa Dolce Casa (@acasadolcecasa25) non è uno strumento promozionale ma un’estensione del lavoro artistico: uno spazio abitato da immagini, testi e dispositivi grafici che evocano l’ambiguità dell’intimità sorvegliata, il paradosso dell’autenticità sotto osservazione. Il pubblico è così invitato a proseguire l’esperienza anche fuori dalla sala (prima, dopo ma perché no anche durante lo spettacolo) in uno spazio di riflessione diffusa, dove la comunicazione diventa essa stessa un atto performativo, un design dell’inquietudine.